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Non ci resta che ridere
Come nasce una battuta? Viaggio nell’umorismo-fulminante con la guida dei grandi autori italiani, Quando arriva a tempo, a luogo, a modo, allora taglia l’aria – e i panni di qualcuno – come un lampo. Di solito dura altrettanto: vive lo spazio dell’effetto che fa. Perché «la battuta si esaurisce in un attimo e andrebbe consumata lì al banco», confida Enrico Vaime, gran maestro di paradosso.
Non ci resta che ridere
Come nasce una battuta? Viaggio nell’umorismo-fulminante con la guida dei grandi autori italiani, Quando arriva a tempo, a luogo, a modo, allora taglia l’aria – e i panni di qualcuno – come un lampo. Di solito dura altrettanto: vive lo spazio dell’effetto che fa. Perché «la battuta si esaurisce in un attimo e andrebbe consumata lì al banco», confida Enrico Vaime, gran maestro di paradosso.
Eppure a volte si deposita per sempre, strepitoso precipitato di piccola morale quotidiana e si fa aforisma, perla di umorismo e di saggezza, quasi una fenomenologia dello spirito, come certe cose di Flaiano e Longanesi (tipo, «coraggio, il meglio è passato» o «Non datemi consigli, so sbagliare da solo»), che non mostrano mai gli anni che hanno. La battuta come un lampo, a volte di genio. Come uno scarto improvviso dalle banalità che diciamo e che sentiamo dire: guizzo consolatorio e liberatorio – pura necessità in tempi malmostosi – di buonumore e cattiveria, di maldicenza e autoironia, di cinismo e sarcasmo. Uno sfogatoio che strappa il sorriso e non conta che si tratti di un contraddetto di Karl Kraus o della trovata del vicino di scrivania, di un frammento di Zelig Circus o dell’uscita del collega in pausa-pranzo. La battuta è l’illuminismo dell’umorismo, è intelligenza affilata, la ragione portata al paradosso: poteva non avere un’Enciclopedia, dove incrociare maestri del calembour e comici per un giorno, poeti in libertà e politici fuori dai denti come il Thomas Jefferson di «Tremo per il mio Paese, quando penso che Dio è giusto» (e chissà se Bush jr l’avrebbe capita)?
Beh, si chiama proprio così, Enciclopedia universale della battuta. E ci sono accatastate, in dodici volumi, ventimila botte di humor. Feroci e dissacranti, acuminate e inconsapevoli – le più atroci -, come quella di Spillo Altobelli, indimenticato centravanti dell’Inter: «È un onore fare qualcosa per questi bambini baciati in fronte dalla sfortuna ». Le mandi giù come l’acqua («risparmiate l’acqua, diluitela», Max Hodes), ma ti chiedi anche dove stia la sorgente: come nasce una battuta? cos’è che la rende impeccabile? e perché, spesso, non c’è verso di tenersela dentro, anche a costo di cercare guai, come «l’energumeno tascabile» rifilato al ministro Brunetta da D’Alema, costretto alle scuse?
Dice Gene Gnocchi, inventore quotidiano di stralunate uscite sulla prima pagina della Gazzetta, che bisogna avere un’abilità da barman: «La battuta è un cocktail a sorpresa. Devi shakerare materiali che nessuno sospetta, associando, nel mio caso, sociale e sportivo: per esempio il ministro Brunetta con il Milan svogliato, l’anti-fannulloni con una batosta sul campo, fantasticando su “Berlusconi che vuole mettere i tornelli davanti allo spogliatoio rossonero”». O su Ibra che ringrazia il governo, perché gli ha garantito che respingerà l’odiato Balotelli in Libia. «Il più grande inventore di battute? Flaiano. Sono cresciuto sui suoi libri, non solo di aforismi. Lasciava il segno». Un segno sui tempi, se per descrivere l’Italia del boom gli bastavano dodici parole: «Il traffico ha reso impossibile l’adulterio nelle ore di punta». Un genio capace di far sedimentare le sue uscite sul costume degli italiani. «Ma oggi», continua Gene, «le notizie durano un giorno appena e non fai in tempo a lavorare su un filone. È tempo di battute fast-food, da consumare veloci per passare alla prossima. Mentre a me piacciono quelle a scoppio ritardato: un paio di secondi per capirle fino in fondo». Il tuono del testo che anticipa il lampo. «Sono affezionato alle battute lente ad arrivare come “il concorso ippico è andato male, perché il cavallo davanti all’ostacolo pretendeva di saltare fosbury” oppure “i gemelli siamesi litigavano di brutto e i genitori non riuscivano a separarli”». La battuta sorniona, fulminea a distanza, quella che reclama l’intelligenza paziente dell’interlocutore. In questo senso la battuta è l’antitesi della storiella comica. «Per forza, la barzelletta è rozza», attacca Vaime, «e meno nobile. Di solito ride di gusto chi la dice e poi quelli intorno per farlo contento. Le barzellette da noi le racconta Berlusconi. Magari serviranno anche quelle a vincere le elezioni, anzi ne sono sicuro, però la battuta è un’altra cosa. Sono proprio due scuole, due culture».
Un sms rispetto alla telefonata, il concentrato di fronte alla diluizione. «Un battutista deve avere orrore di sé, altrimenti non si salva, e certe volte deve saper rinunciare a quel che gli salta in testa. L’altro giorno, lavorando a una sceneggiatura, ho tirato fuori questo dialogo: “Io sono Carlo, ma mi chiamano stronzo”,“Chi ti vuole bene, ma gli altri?” All’inizio mi feceva ridere, poi l’ho riletta e l’ho buttata. Orrore di sé, appunto». Sul primato della battuta la pensano allo stesso modo anche Antonello Dose e Marco Presta, quelli de Il ruggito del coniglio: «La barzelletta è un surgelato. Di solito è vecchia di anni e riadattata. È il bignami della farsa. Va bene per chi è di bocca buona», fa Presta. Lasciando intendere che in fondo è bonaria, non fa male e sa di cumenda anni ’60, «mentre la battuta ha bisogno di di cattiveria. Cattiveria anche nei confronti di se stessi, perché bisogna soprattutto saper ridere di sé. Quando ti accorgi che la battuta è quella giusta? È come nell’innamoramento: hai un colpo di fulmine per la baggianata che hai appena detto». Sì, ma come nasce? «Di solito dalla lettura dei giornali », ride Dose, «che sono una fonte inesauribile di spunti. Anzi, spesso le battute sono già lì, in certe dichiarazioni, in certi proclami. E noi, in trasmissione, ci giochiamo a pallavolo: uno alza l’argomento e l’altro schiaccia con un paradosso, un calembour, avendo cura di evitare le banalità, il troppo facile, lo scontato». Chiude il collegamento Presta: «Oggi che gli spazi della comicità più corrosiva si sono ridotti perché i politici occupano tutto, pure il posto dei comici, la battuta fulminante resta ancora un’ottima forma di comunicazione umoristica. Specie alla radio, che è un’isola felice: fai una battuta cattiva ed è già volata via e chi poteva non gradirla non fa in tempo ad arrabbiarsi». O magari non l’ha capita.
Perché la battuta deve essere un po’ elitaria, giurano i battutisti, che spesso se la prendono proprio con chi non avrebbe strumenti per intenderla – lo schema d’antan suggerirebbe: barzelletta nazional-popolare di destra contro battuta radical-chic di sinistra con tanto di Berlusconi barzellettiere vs. D’Alema battutista –, questione esemplificata da un aforisma flaianesco senza data di scadenza: «Oggi il cretino è pieno di idee». Perché la battuta ha bisogno anche di spudorata presunzione e di una certa cinica superiorità, come dimostra quell’altra uscita di Flaiano – ed è la battuta preferita da Vaime e Presta – che, seduto da Rosati a Roma nei primi anni ’70, assieme ad amici registi e sceneggiatori del suo calibro, distratto da ragazzotti alle prime armi, ma sussiegosi e molto impegnati a dire e fare, se ne uscì con un «Guardateli, credono di essere noi». Senza pietà, come solo i fuoriclasse. Che proprio sul tema “cretini” han dato il meglio, tanto che battute come «Fin da Adamo i cretini sono stati maggioranza» oppure «l’amore consiste nell’essere cretini insieme», che potrebbero essere uscite da un monologo di Zelig, in realtà sono dei sommi poeti francesi Casimir Delavigne e Paul Valery. Perché la battuta detta al bar, su un palco o inchiostrata in qualche silloge o sceneggiatura, è genialmente trasversale, mischia alto e basso, ed è uno stato di grazia che può toccare al regista di nicchia, al comico tv, a chiunque. Per esempio, la battuta «Quando faccio l’amore, dopo un po’ mi sveglio» è di Woody Allen o di Rocco Barbaro? E quell’altra, «Lo schiavo si affeziona, l’impiegato no» è di Marcello Marchesi o di Maurizio Milani? (Soluzione quiz: Barbaro e Marchesi). «È innanzitutto questione di tempo comico: o ce l’hai o non ce l’hai», spiega Marco Santin, uno dei tre lati della Gialappa’s, che con le battute gioca ogni mattina alla radio (in Grazie per averci scelto): «La più bella battuta detta dieci secondi dopo non vale nulla e rischia pure l’autogol. Deve uscire al momento giusto, fulminante e quando è buona lo capisci subito perché ti regala uno strano piacere. I più grandi battutisti? Enrico Vaime, un maestro. E poi Walter Fontana, che è capace di farne a raffiche e di livello altissimo, come “Ma ti credi Dio? Beh no, ma a qualcuno dovrò pure ispirarmi”. Che è forse la mia preferita. Anche se la grande scuola della battuta, resta quella romana. C’è un cinismo quotidiano nei romani, tassista, negoziante, chiunque, che regala perle incredibili. Non parliamo poi di quando vai al cinema dove, nel silenzio di una scena, si alza la voce di uno spettatore capace di stenderti con un commento strepitoso». Come si diceva, questione di tempo e vis comici. Perché esercizio di stile («la gelosia è un abbaiare di cani che attira i ladri», Karl Kraus) o intemerata popolaresca, la battuta non è questione di lombi colti, solo di intelligenza e arguzia feroce. «Ma oggi che c’è fretta di tutto», spiega Santin, «e si danno il cambio un numero impressionante di trasmissioni comiche, alla radio e in tv, rischi di perdere qualcosa, preferendo la quantità alla qualità. Di perderne qualcuna di quelle da conservare». Magari per un’appendice enciclopedica. Ma non è il destino della battuta vivere giusto il tempo di una risata? Risponde Flaiano: «I capolavori oggi hanno i minuti contati».
Beh, si chiama proprio così, Enciclopedia universale della battuta. E ci sono accatastate, in dodici volumi, ventimila botte di humor. Feroci e dissacranti, acuminate e inconsapevoli – le più atroci -, come quella di Spillo Altobelli, indimenticato centravanti dell’Inter: «È un onore fare qualcosa per questi bambini baciati in fronte dalla sfortuna ». Le mandi giù come l’acqua («risparmiate l’acqua, diluitela», Max Hodes), ma ti chiedi anche dove stia la sorgente: come nasce una battuta? cos’è che la rende impeccabile? e perché, spesso, non c’è verso di tenersela dentro, anche a costo di cercare guai, come «l’energumeno tascabile» rifilato al ministro Brunetta da D’Alema, costretto alle scuse?
Dice Gene Gnocchi, inventore quotidiano di stralunate uscite sulla prima pagina della Gazzetta, che bisogna avere un’abilità da barman: «La battuta è un cocktail a sorpresa. Devi shakerare materiali che nessuno sospetta, associando, nel mio caso, sociale e sportivo: per esempio il ministro Brunetta con il Milan svogliato, l’anti-fannulloni con una batosta sul campo, fantasticando su “Berlusconi che vuole mettere i tornelli davanti allo spogliatoio rossonero”». O su Ibra che ringrazia il governo, perché gli ha garantito che respingerà l’odiato Balotelli in Libia. «Il più grande inventore di battute? Flaiano. Sono cresciuto sui suoi libri, non solo di aforismi. Lasciava il segno». Un segno sui tempi, se per descrivere l’Italia del boom gli bastavano dodici parole: «Il traffico ha reso impossibile l’adulterio nelle ore di punta». Un genio capace di far sedimentare le sue uscite sul costume degli italiani. «Ma oggi», continua Gene, «le notizie durano un giorno appena e non fai in tempo a lavorare su un filone. È tempo di battute fast-food, da consumare veloci per passare alla prossima. Mentre a me piacciono quelle a scoppio ritardato: un paio di secondi per capirle fino in fondo». Il tuono del testo che anticipa il lampo. «Sono affezionato alle battute lente ad arrivare come “il concorso ippico è andato male, perché il cavallo davanti all’ostacolo pretendeva di saltare fosbury” oppure “i gemelli siamesi litigavano di brutto e i genitori non riuscivano a separarli”». La battuta sorniona, fulminea a distanza, quella che reclama l’intelligenza paziente dell’interlocutore. In questo senso la battuta è l’antitesi della storiella comica. «Per forza, la barzelletta è rozza», attacca Vaime, «e meno nobile. Di solito ride di gusto chi la dice e poi quelli intorno per farlo contento. Le barzellette da noi le racconta Berlusconi. Magari serviranno anche quelle a vincere le elezioni, anzi ne sono sicuro, però la battuta è un’altra cosa. Sono proprio due scuole, due culture».
Un sms rispetto alla telefonata, il concentrato di fronte alla diluizione. «Un battutista deve avere orrore di sé, altrimenti non si salva, e certe volte deve saper rinunciare a quel che gli salta in testa. L’altro giorno, lavorando a una sceneggiatura, ho tirato fuori questo dialogo: “Io sono Carlo, ma mi chiamano stronzo”,“Chi ti vuole bene, ma gli altri?” All’inizio mi feceva ridere, poi l’ho riletta e l’ho buttata. Orrore di sé, appunto». Sul primato della battuta la pensano allo stesso modo anche Antonello Dose e Marco Presta, quelli de Il ruggito del coniglio: «La barzelletta è un surgelato. Di solito è vecchia di anni e riadattata. È il bignami della farsa. Va bene per chi è di bocca buona», fa Presta. Lasciando intendere che in fondo è bonaria, non fa male e sa di cumenda anni ’60, «mentre la battuta ha bisogno di di cattiveria. Cattiveria anche nei confronti di se stessi, perché bisogna soprattutto saper ridere di sé. Quando ti accorgi che la battuta è quella giusta? È come nell’innamoramento: hai un colpo di fulmine per la baggianata che hai appena detto». Sì, ma come nasce? «Di solito dalla lettura dei giornali », ride Dose, «che sono una fonte inesauribile di spunti. Anzi, spesso le battute sono già lì, in certe dichiarazioni, in certi proclami. E noi, in trasmissione, ci giochiamo a pallavolo: uno alza l’argomento e l’altro schiaccia con un paradosso, un calembour, avendo cura di evitare le banalità, il troppo facile, lo scontato». Chiude il collegamento Presta: «Oggi che gli spazi della comicità più corrosiva si sono ridotti perché i politici occupano tutto, pure il posto dei comici, la battuta fulminante resta ancora un’ottima forma di comunicazione umoristica. Specie alla radio, che è un’isola felice: fai una battuta cattiva ed è già volata via e chi poteva non gradirla non fa in tempo ad arrabbiarsi». O magari non l’ha capita.
Perché la battuta deve essere un po’ elitaria, giurano i battutisti, che spesso se la prendono proprio con chi non avrebbe strumenti per intenderla – lo schema d’antan suggerirebbe: barzelletta nazional-popolare di destra contro battuta radical-chic di sinistra con tanto di Berlusconi barzellettiere vs. D’Alema battutista –, questione esemplificata da un aforisma flaianesco senza data di scadenza: «Oggi il cretino è pieno di idee». Perché la battuta ha bisogno anche di spudorata presunzione e di una certa cinica superiorità, come dimostra quell’altra uscita di Flaiano – ed è la battuta preferita da Vaime e Presta – che, seduto da Rosati a Roma nei primi anni ’70, assieme ad amici registi e sceneggiatori del suo calibro, distratto da ragazzotti alle prime armi, ma sussiegosi e molto impegnati a dire e fare, se ne uscì con un «Guardateli, credono di essere noi». Senza pietà, come solo i fuoriclasse. Che proprio sul tema “cretini” han dato il meglio, tanto che battute come «Fin da Adamo i cretini sono stati maggioranza» oppure «l’amore consiste nell’essere cretini insieme», che potrebbero essere uscite da un monologo di Zelig, in realtà sono dei sommi poeti francesi Casimir Delavigne e Paul Valery. Perché la battuta detta al bar, su un palco o inchiostrata in qualche silloge o sceneggiatura, è genialmente trasversale, mischia alto e basso, ed è uno stato di grazia che può toccare al regista di nicchia, al comico tv, a chiunque. Per esempio, la battuta «Quando faccio l’amore, dopo un po’ mi sveglio» è di Woody Allen o di Rocco Barbaro? E quell’altra, «Lo schiavo si affeziona, l’impiegato no» è di Marcello Marchesi o di Maurizio Milani? (Soluzione quiz: Barbaro e Marchesi). «È innanzitutto questione di tempo comico: o ce l’hai o non ce l’hai», spiega Marco Santin, uno dei tre lati della Gialappa’s, che con le battute gioca ogni mattina alla radio (in Grazie per averci scelto): «La più bella battuta detta dieci secondi dopo non vale nulla e rischia pure l’autogol. Deve uscire al momento giusto, fulminante e quando è buona lo capisci subito perché ti regala uno strano piacere. I più grandi battutisti? Enrico Vaime, un maestro. E poi Walter Fontana, che è capace di farne a raffiche e di livello altissimo, come “Ma ti credi Dio? Beh no, ma a qualcuno dovrò pure ispirarmi”. Che è forse la mia preferita. Anche se la grande scuola della battuta, resta quella romana. C’è un cinismo quotidiano nei romani, tassista, negoziante, chiunque, che regala perle incredibili. Non parliamo poi di quando vai al cinema dove, nel silenzio di una scena, si alza la voce di uno spettatore capace di stenderti con un commento strepitoso». Come si diceva, questione di tempo e vis comici. Perché esercizio di stile («la gelosia è un abbaiare di cani che attira i ladri», Karl Kraus) o intemerata popolaresca, la battuta non è questione di lombi colti, solo di intelligenza e arguzia feroce. «Ma oggi che c’è fretta di tutto», spiega Santin, «e si danno il cambio un numero impressionante di trasmissioni comiche, alla radio e in tv, rischi di perdere qualcosa, preferendo la quantità alla qualità. Di perderne qualcuna di quelle da conservare». Magari per un’appendice enciclopedica. Ma non è il destino della battuta vivere giusto il tempo di una risata? Risponde Flaiano: «I capolavori oggi hanno i minuti contati».
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